Riproporre alla società del XXI secolo, abituata alla globalizzazione dei fast food, pietanze preparate con ingredienti inconsueti e, per lo più, non facilmente reperibili, è sempre una sfida anche se non più di tanto inusitata se si pensa a quanti moderni studi antropologici hanno dimostrato che non si può dire di conoscere veramente una cultura se non se ne conoscono i sapori.
La parola “alimento” racchiude già in sé tutti i motivi che inducono noi moderni a curiosare nella cucina degli antichi: difatti alcune parole latine, simili nel suono e nel senso a questo termine, traggono origine proprio dal medesimo ramo indoeuropeo, *ul, *al*, inteso come carburante dello sviluppo biologico (altus, adulescens, alma[nutrice]).
La cucina greca e quella romana erano molto simili tra loro e la nostra moderna è debitrice ad entrambe. I Greci si occupavano di arte culinaria e lo facevano soprattutto dal punto di vista medico. Il primo manuale gastronomico in lingua greca è quella di Archestrato di Gela, intitolato “Vivere nel piacere”, un poema didascalico che parodiava lo stile epico.
Sfogliando pagine del “De re coquinaria” di Apicio, può capitare di rimanere stupiti dalle somiglianze evidenti con i nostri usi a tavola: per esempio cominciare il pranzo con gli antipasti e finire con la frutta è un’abitudine che sembra aver attraversato i secoli.
PANE
In epoca arcaica il pane era del tutto sconosciuto a Roma e nel Lazio e la sua funzione era svolta egregiamente dalle polente (puls) di farro, orzo, miglio è, successivamente, di frumento. In un secondo tempo, si impastò la piadina azima che, gonfiata dal fermentum, conquistò i Romani con la sua leggerezza “croccante”.
Con il passare del tempo, si cercò di affinare la farina destinata al pane setacciandola con vagli di crine di cavallo più o meno fini che fornivano farina grossa (cibarium) media (sivigo) e finissima (flos).
Quello che veniva chiamato pane era, in origine, soltanto una sorta di galletta dura non lievitata, costosa e velocemente deperibile. Successivamente si scoprì che il pane lievitato era più digeribile, più morbido e più gustoso. Se ne produssero vari tipi: quello scuro, popolare (cibarius); quello integrale, prediletto da Augusto (secundarius); quello quasi bianco, fatto con il grano tenero (siligineus); quello quasi nero, fatto di farina non setacciata (autopyrus); quello cotto allo spiedo, tipico di Alessandria; il cosiddetto “piceno”, cotto in vasi di coccio che si rompevano direttamente a tavola; il parthicus, dalla consistenza spugnosa; il furfureus, fatto quasi tutto con la crusca; l’adipatus, condito con il lardo; il nauticus per i marinai; il militaris e il castrensis per i soldati combattenti; il pane al burro ad uso gallico; l’ostearius per accompagnare le ostriche; il pane rotondo e la diffusissima pagnotta divisa in quattro porzioni per via di due tagli praticati in superficie prima della cottura.
Alcuni tipi di pane erano poi ulteriormente trattati dai pasticcieri che li decoravano con anice, semi di papavero, semi di sesamo e altre essenze fissate sulla crosta con bianco d’uovo. Per i ragazzi venivano preparate piccole focacce a forma di animali, di vari oggetti, di armi.
Si arrivò a produrre un pane che era più un dolce: l’artolaganus, che era confezionato con farina sceltissima e impastata con miele, vino, latte, olio, frutta candita a pezzetti e abbondante pepe.
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